Articoli di Giovanni Papini

1939


Lettera a uno straniero di Giovanni Papini

Pubblicato in: L'Eco di Bergamo, anno LVIII, fasc. 6, p. 3
Data: 9 gennaio 1939


pag.3



La Nuova Antologia apre quest'anno le
sue pagine con un articolo di Giovanni
Papini. Per gentile concessione della
autorevole rivista — che vivamente
ringraziamo — possiamo offrire ai nostri
lettori il brano iniziale di questa prosa e
le sue ultime battute.

   Ciascun pellegrino, anche di semplice desiderio, loda la maestà dei nostri monti, la familiare serenità dei nostri laghi, la grazia popolana e regale delle nostre città, l'aerea o solenne perfezione dei nostri monumenti, la casta fecondità delle nostre campagne, la liberale felicità dei nostri artisti ma quasi nessuno pensa con affetto a questo popolo antico, fatto quasi sacro dalle glorie sol comparabili alle sue sventure che da secoli agisce e patisce come nessun altro e senza il quale l'Europa non sarebbe l'Europa e il mondo apparirebbe infinitamente più opaco e più misero.
   Ora che sei ospite di questo Paese, è ben che tu sappia di qual natura e statura sono i suoi abitatori. Non ti offendere; di nessun popolo s'è tanto scritto eppure nessun popolo è malcapito al par del nostro. Molti l'ammirano, pochissimi l'amano; l'invidia, consanguinea dell'odio, finge talvolta l'ignoranza per meglio sfogar l'ingiustizia.
   Ma noi comprendiamo tutto, anche l'incomprensione. Si richiedono anime troppo grandi e inverosimilmente cristiane per capire, cioè amare, i superiori e i benefattori.
   Più di un popolo ha signoreggiato qualche parte del mondo ma in un modo solo e soltanto per un'età. Il popolo italiano, invece, è il padrone perpetuo per vocazione ed essenza. Da quando uscì ben fuso, dalla fornace di Roma — negli anni stessi che Augusto imperava e Gesù era per nascere — il popolo italiano ha dominato sempre, con mezzi diversi e talora opposti ma senza intermissioni.
   Fino al V secolo l'Italia dominò coll'arma e le leggi; dal VI secolo in poi, colla dottrina e la disciplina della Chiesa Romana; dall'XI al XV secolo coll'egemonia mercantile e marittima; dal XIV a tutto il XVI collo splendore dell'arte e il prestigio del sapere; dal XVII al XIX cogli incantesimi della musica e delle scienze — da Monteverdi a Verdi, da Galileo a Marconi —; ai primi del XIX secolo un italiano, Napoleone, volle nuovamente dominare l'Europa coll'armi e le leggi; poco dopo un altro italiano, Mazzini, volle collegarla nella fraternità di un civico misticismo; ora nel XX, il popolo d'Italia torna effettualmente a dominare: in Europa colle fortune sempre maggiori alla sua formula politica, in Africa colle conquiste armate e colle opere della civiltà.
   Annegano nell'alluvione barbarica gli ultimi imperatori ed ecco emergere i Vescovi di Roma, i Papi inermi ma eroici che a forza di parole e di sangue risoggiogano i barbari sfuggiti alla guardia delle legioni. Ma non appena l'autorità spirituale dei grandi pontefici romani, da Gregorio VII in poi, accenna a decadere ecco uscir da Venezia e da Genova, di Toscana e di Lombardia, i nuovi padroni dell'Occidente: giuristi e teologi, navigatori e banchieri. Anche questa egemonia è minacciata dal sorgere dei grandi Stati ma l'italiana libido dominandi non si dà per vinta. Per due secoli i nostri umanisti e i nostri poeti, i nostri pittori e i nostri architetti, i nostri statuari e i nostri ingegneri, saranno i veri signori dello spirito europeo, cioè iniziatori e creatori della nuova civiltà occidentale. La egemonia dei nostri artisti — specie musici e architetti — durò fino all'Ottocento. Per duecento anni l'Europa cantò in italiano, edificò all'italiana, finchè non fu sottomessa da un italiano di Corsica e a lungo andare profondamente trasformata dall'invenzione di un italiano di Como. L'Ottocento fu in gran parte speso per la riconquista dell'unità ma prima ancora che il secolo finisse; l'Italiano riprendeva — sia pur timidamente — il suo compito imperiale in Africa. Ci volle mezzo secolo (1820-1870) perché il popolo tornasse Nazione; un altro mezzo secolo (1885-1936) perciò la Nazione ancora una volta si dilatasse in Impero.
   Per due millenni arditi gl'italiani hanno sovrastato e comandato sempre: col ferro della spada o l'avorio del pastorale, coll'aquila o colla Croce, coll'oro o colla penna, colla potenza della fede o lo splendore del genio ma padroni sempre; maestri, cioè padroni, anche dei loro stranieri padroni.
   Ti mostrerò una conferma di questa nostra imperativa natura.
   Conosci tu l'italianissima espressione «dettar regge»? Ti consiglio di registrarla in una delle prima pagine del tuo albo tascabile. Non è merito nostro nè colpa nostra ma questa è la verità; siamo un popolo inclinato e disposto a «dettar legge».
   Non starò a rammentare che il Diritto in ogni sua forma, dal diritto delle genti a quello canonico, è per la massima parte opera di italiani. La legge spirituale che ha dominato per secoli l'Europa è nata qui, in Italia; dalla «Regula Pastoralis» di Gregorio Magno al «Dictatus Papae» di, Gregorio VII. Italiani il Castiglione e il Della Casa che stabilirono le regole della civil convivenza per tutti gli europei colti; Machiavelli che dettò le leggi che reggono i regimi politici; Galileo che determinò quelle dei corpi terrestri e dei celesti; Vico che scoprì a quali leggi obbediscono le mutazioni dei popoli e delle civiltà. E se vuoi esempi moderni di questa vocazione legislatrice italiana pensa al Codice civile del primo Napoleone, allo Statuto del Quarnaro di D'Annunzio, alla Carta del Lavoro di Mussolini.
   Non ti consolare col ricordo a te dolce delle parentesi storiche per lunghe che siano; chi è nato a far leggi è destinato, presto o tardi, a farle eseguire.

***
   Chi scorge nella lupa, simbolo delle origini romane, la fiera crudele e rapace s'inganna assai. Non è il maschio feroce, in quel mito, ma la femmina allattante, la nutrice generosa, la madre. Tanto mite che nutrisce i figli dei suoi nemici e si fa quasi umana perchè i fanciulli abbandonati possano, divenuti grandi e fieri, dare asilo a tutti i perseguitati della nuova città destinata a esser la capitale del clemente Cesare e del Vicario di Cristo. Tutto ciò ch'è grande e buono al mondo è naturalmente cristiano, cioè cattolico e insieme italiano.
   Civiltà italiana non vuol dire xenofobia cinese o particolarismo provinciale. L'Italia ha superato il Nazionalismo per giungere all'Impero; ha dato a ogni popolo, colla Chiesa la luce della fede e col Rinascimento la luce dell'arte.    Di tribù diverse e di nazioni stanche di popoli silvestri e di relitti d'imperi fece altrettanti convitati della «Civitas », associati alla sua grandezza; i ribelli ricondusse alla intelligenza della legge, gli eretici alla pace dell'unità, i tiepidi all'amore. Non a caso la metropoli della religione universale fu designata e stabilita nel centro medesimo di questa terra che non è soltanto la patria nostra ma di tutti coloro che credono nella verità divina e nella grandezza umana. Il Cristianesimo non è soltanto italiano ma l'italiano è per essenza cattolico. Quando l'Italia d'oggi combatte le varie eresie politiche e morali dell'Ottocento non difende soltanto la Romanità augustea ma anche quella romanità ch'è divenuta, da quasi millesettecent'anni, petriana. Nell'unità sostanziale di questo duplice amore e di questa doppia battaglia va interpretata l'ultima storia italiana e l'anima profonda di questo popolo povero che benefica anche i ricchi.
   Se vieni a Roma e saprai umilmente osservare tanto il Campidoglio rifatto da Michelangelo quanto la cupola di San Pietro disegnata da Michelangelo, non scoprirai soltanto il genio architettonico del Buonarroti ma, prima di tutto, uno dei segreti palesi dell'anima unitaria e universalista del popolo italiano.


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I Corinti, XIII, 11.